Dodici mesi d'Arte

Dodici capolavori presentati e descritti dal
soprintendente Cristina Acidini

Ottobre Vincenzo de' Rossi Teseo ed Elena (o Enea e Didone) Vincenzo de' Rossi Teseo ed Elena (o Enea e Didone) Firenze, Museo del Bargello. Inventario Bargello Sculture 430 di Cristina Acidini

Da luglio scorso, grazie al generoso intervento di Sammontana, una nuova illuminazione ha conferito nuova visibilità e inedita suggestione alla Grotta Grande di Boboli, costruita in gran parte da Bernardo Buontalenti per il granduca Francesco I, a partire dal 1583. Anche dall’esterno, si percepisce la lunga sequenza delle tre camere rustiche collegate tra loro che formano la grotta, il cui prospetto a due colonne incrostato di spugne, stalattiti e conchiglie s’innalza a fianco dell’uscita del Corridoio Vasariano sul giardino.
Nella prima camera, i bassorilievi abbozzati di ninfe e pastori tra affreschi con animali alludono all’umanità primordiale, appena emersa dal caos della materia. Nella terza, tra ornamenti minerali scintillanti, una Venere di marmo del Giambologna s’innalza su una fontana su cui si arrampicano quattro satiri in ascesa verso la dea. Nella seconda – la più piccola, posta a collegamento fra le due - è collocato in posizione altamente scenografica un gruppo di due persone e un animale, su una base dalla funzione di fontanella. Scolpita da Vincenzo de’Rossi nel 1558 (e solo nel 1587 posta nella grotta), la nuda coppia avvenente è stretta in un abbraccio: ma l’unione pare turbata poiché la donna oppone resistenza, come per volersi sottrarre.
Chi sono gli agitati amanti? La loro identità va cercata nella mitologia greco-romana, poiché la bestia sdraiata ai loro piedi, essendo una “femmina del bestiame porcino “ (così il Vocabolario della Crusca, 1612), con la chiarezza di una didascalia evoca l’antica città di Troia. A lungo identificata con Paride ed Elena, protagonisti della storia d’amore che scatenò la decennale guerra fra Greci e Troiani, la coppia è ora ritenuta Enea e Didone: l’eroe figlio di Venere, in fuga dalla città incendiata, si unì alla regina cartaginese vedova proprio in una grotta, fra riluttanze e sinistri presagi. Enea riprese il suo viaggio (e Didone si suicidò sul rogo) per approdare nel Lazio e avviare, grazie al figlio Ascanio Iulo, quella gens Iulia che tanto risalto avrebbe avuto in Roma. E Firenze del Rinascimento non esitava a sentirsi erede della grandezza romana.
Il messaggio che partiva dal cuore della grotta manierista del granduca Francesco I, dunque, non era tanto un inno alla sensualità pagana, quanto un sottile manifesto politico, che ribadiva la centralità e la magnificenza di Firenze.